L'argine

Questa è la storia di un argine. Non di un argine qualunque. Dell’argine che veglia un grande fiume. Ci sono molti grandi fiumi al mondo. Alcuni dal nome cacofonico come il Mississippi, altri dal nome regale, come il Nilo, oppure potente ed epico, come il Rio delle Amazzoni, o sacro come il Gange. C’è un fiume, invece, che ha un nome quasi incompiuto. Che sembra stia aspettando di essere completato oppure accompagnato da qualche altra parola: il Po.
Ma qui non si raccontano le sue vicende, o perlomeno non ne è il protagonista principale. Al centro di queste poche righe c’è invece l’argine. Ovviamente qualcuno si potrà chiedere cosa avrà mai da raccontare un argine di così importante. Forse nulla. Forse tutto.
Siamo nel punto principale del fiume, dove tutta la sua irrequietezza di montagna è già un lontano ricordo. Qui, smessi i panni di una grande madre che nutre e abbraccia i suoi figli, si fa anziano silente, prossimo alla fine del suo cammino. La sua essenza si divide, di ramo in ramo. Ma uno di questi, il più importante, resta spina dorsale di una pianura frenetica e asfissiante. L’acqua torbida ci ricorda che è primavera, le poche nevi si sciolgono e nuova vita sotto forma di sedimenti dovrebbe riempire le esauste campagne. Ma di questo ciclo, l’uomo, ha imparato a fare a meno. La paura delle alluvioni e l’arroganza costruttiva hanno ingabbiato il fiume che fu la tomba di Fetonte. Lentamente, miti e leggende hanno abbandonato le sue sponde, ora divenute alte sbarre di terra e asfalto. Ad ogni metro che cresceva diminuiva il ricordo del grande fiume. Gli ultimi barlumi di riverenze pagane e preghiere cristiane, sbiadite come vecchie foto in bianco e nero. La tragedia del 1951 fu l’ultimo grido di dolore contro una natura arcigna ed indomabile. Oggi, grazie ai poderosi argini e all’ingegneria idraulica, ha vinto l’uomo.
A percorre la lingua di asfalto grigia che corre sopra di essi, non sono più padri preoccupati dal livello che cresce, con i centimetri a scandire la distanza tra la vita e la morte. Non sono neanche più i guardiani del fiume, con i sacchi di sabbia passati a mano per prepararsi allo scontro con le ondate di piena e i fasci di cera ad illuminare le notti di veglia. Nemmeno si vedono più vecchie biciclette e motorini, carichi all’inverosimile di reti e pesci viscosi, pescatori la cui aspirazione massima era mettere qualcosa in tavola a fine giornata. No. Oggi quella strada sopraelevata la si percorre per diletto. Per smaltire eccessi di grasso o di stress. Per trovare un luogo riparato come nido d’amore. Oppure per pescare, dotati di tutti i confort. Quello che un tempo era il confine labile tra ciò che dava vita, o morte, da ciò che era casa e terra da coltivare, oggi è solo una sottile isola senza automobili.
Ecco allora che si vuole esortare a fare un atto sovversivo mentre si è in cima al grande argine. Fermarsi. Immobili, come un cane da punta. Chiudere gli occhi per cercare di percepire cose nuove. Il lontano ronzio incessante della Romea, che accompagna i pellegrini di oggi, ancorati ad una quotidianità che accelera senza portare da nessuna parte. I suoni degli abitanti del fiume, che giungono a noi ovattati, lontani. Dei suoi ospiti di lingua germanica o slava. Il tuffo di un pesce o di una nutria, il richiamo di un gabbiano in fuga da un mare ormai deserto di pesci, il rutto alcolico di un tedesco dalla sua casa galleggiante.
Qualche metro più in basso, dal lato asciutto, una campagna sempre più disabitata dorme placida in attesa di un risveglio che forse mai arriverà. Dentro un trattore con aria condizionata e radio accesa, uomo e terra parlano ormai lingue diverse. Passati i suoni, i nostri sensi vengono travolti dalla promessa di mare. Alle spalle l’odore stantio di vite inquinate, di fronte un esile profumo di pochi attimi ci catapulta tra valli, fenicotteri, dune di sabbia e rovi di more. Una folata dall’inconfondibile aroma di sterco ci ricorda che la vita, è sempre una moneta dalle due facce. Ma è poi quando apriamo gli occhi che ci rendiamo conto di cos’è davvero l’argine. Una linea di confine. Tra terra e acqua. Pianura e mare. Passato e presente. Paura e sicurezza. Divino e terreno. Curve e rettilinei. Barche e trattori. Assenze e presenze. Allora i nostri passi possono riprendere il cammino. Ora lenti, poi via via più veloci, ingordi. Desiderosi di scoprire cosa si nasconde dopo la prossima ansa, che è una curva, che capovolge lo sguardo e il mondo. Poi ancora un rettilineo, sublime linea retta tra le tante che affollano la campagna sottostante. Fossi, filari, aratro, tralicci, argini, pali, canali, stalle. Come se l‘uomo abbia trovato nella solidità della geometria una risposta alla liquidità del fiume.
Cresce, col passare dei chilometri, l’idea che questa strada, sopra due mondi ma straordinariamente dentro di essi, possa continuare all’infinito. Possa bucare il mare che fu dei greci e arrivare chissà dove in oriente. Capiamo, infine, che non dovremo abbandonare questo argine. Perché questo eterno dualismo non è fatto per essere compreso fino in fondo e ci può insegnare sempre qualcosa. Che di ogni cosa creata dalle fatiche umane di chi ci ha preceduto si deve avere cura. Dobbiamo continuare a scalarlo, unica pendenza di un’altrimenti piatta pianura. Lo si deve seguire, prima da un lato e poi dall’altro. Lo si deve amare, per tutto quello che ci offre. E infine, anche se per pochi istanti, dimenticare. In modo da riconnetterci col suo cuore pulsante. Cioè il fiume limoso che scorre al suo interno, come midollo in una spina dorsale.
Noi abbiamo abbandonato il Po. Non più fonte di vita e di lavoro. Non più terrore nelle lunghe notti piovose. Non più arbitro, tra campanilismi di sponda. Senza il fiume non c’è argine. Senza l’argine nessuna terra da coltivare. Senza terra nessun uomo donna bambino con storie da raccontare. Senza racconti non c’è memoria. Senza memoria non saremmo uomini.


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